Qual è la funzione di una casa? Le Corbusier compilò (“scientificamente”) una lista di requisiti. Scrisse che la casa avrebbe dovuto fornire: “Un riparo contro il caldo, il freddo, la pioggia, i ladri, gli indiscreti. Un ricettacolo di luce e di sole, un certo numero di stanze destinate alla cucina, al lavoro, alla vita intima.”
Perché l’architettura cominci ad avere su di noi un impatto tangibile forse è necessario che la nostra vita sia stata segnata in modo indelebile. Prendere sul serio l’architettura richiede da parte nostra l’apertura all’idea di farci influenzare da ciò che ci circonda. Fino a che punto subiamo l’influenza dell’ambiente circostante?
Pareti, sedie e pavimenti si combinano per creare un’atmosfera che permetta ai nostri lati migliori di emergere. Se basta una stanza a modificare il nostro sentire, se la nostra felicità può dipendere dal colore delle pareti o dalla forma di una porta, che cosa ci accadrà nella maggior parte dei luoghi dove siamo costretti ad abitare?
Perché dovrebbe importare quello che il nostro ambiente ha da dirci? Perché gli architetti dovrebbero preoccuparsi di progettare edifici che comunichino particolari idee e sentimenti? Perché siamo soggetti a ciò che dicono gli spazi che abitiamo?
Tendiamo ad attribuire il nome di “casa” a quei luoghi il cui aspetto corrisponde al nostro e lo legittima. Parlare di casa in relazione ad un edificio significa semplicemente riconoscere che è in armonia con il nostro io. Ci serve una casa in senso psicologico, oltre che fisico, per comprendere la nostra vulnerabilità. Ci serve un rifugio per rinforzare i nostri stati mentali, perché spesso il mondo ci rema contro. Ci servono stanze nostre per trovare la versione migliore di noi stessi.
Trascorriamo la maggior parte della nostra vita in interni. Luoghi, spazi per contenere il corpo, le sue necessità quotidiane e le relazioni di lavoro o affettive con cose o persone che rappresentano il formalizzarsi di molte discipline: dall’ergonomia alla fisica tecnica, dalla psicologia alla tecnologia dei materiali, senza escludere certi aspetti della sociologia, in quanto interpretazione dell’evoluzione del costume, delle abitudini di vita, delle nozioni di comfort e privacy.
Protagonista, quindi, del progetto è l’utente: la partecipazione degli utenti alla costruzione dei luoghi è sempre un fattore fondante del progetto.
Il ragionare sulla qualità degli ambienti, utilizzare soluzioni anche sperimentali al fine di vincere sfide tecnologiche e garantire funzioni adatte al nostro tempo, raccontare emozioni, creare atmosfere, e insieme un senso ai vuoti e ai pieni disegnando e realizzando spazi che al tempo stesso permettano di costruire, oltre che un luogo, anche un linguaggio per quel luogo, o un linguaggio di quel luogo, è il lavoro dell’architetto.
In questa ottica l’opera dell’architetto può contribuire a migliorare il benessere psicologico e intellettuale delle persone che vivono in case pensate per loro durante la fase di progettazione.
Possiamo arrivare a sostenere che le diverse stanze della casa rappresentano in un certo modo diverse parti di noi. Una cosa molto affascinante è analizzare i contrasti fra i vari profili delle diverse stanze.
Il soggiorno è l’ambiente della convivialità, è quello nel quale inseriamo gli elementi che noi esponiamo, e che abbiamo il piacere che gli altri vedano di noi, e potrebbe dunque rappresentare il nostro “profilo pubblico”.
La cucina invece è uno spazio più legato all’essenza; è il luogo degli affetti, della famiglia, del ritrovo dopo una lunga giornata a lavoro, è lo spazio preposto al nutrimento sia concreto che simbolico grazie alla condivisione di esperienze, emozioni e fatiche fatta attorno al tavolo da pranzo insieme a loro, i nostri affetti. Da questo punto di vista la cucina potrebbe rappresentare il nostro “profilo emotivo”.
La camera da letto è il vero regno dell’intimità, vi facciamo entrare pochissime persone, e non sempre la mostriamo agli estranei, essa rappresenta il nostro “profilo privato” anche perché custodisce degli aspetti riservati anche autentici di noi.
E poi c’è il bagno, la stanza in cui per prima cosa chiudiamo la porta a chiave, un posto in cui siamo veramente noi stessi. È qui che restiamo da soli. È un luogo dove chiudendo la porta ci si può guardare, analizzare, lontani dai rumori esterni, dalle caotiche distrazioni, dove facciamo i conti con noi stessi in relazione al tempo che passa, dove curiamo la nostra intimità, è una stanza terapeutica. Essa rappresenta il nostro “profilo interiore”.
E quindi possiamo considerare una casa come l’autentico contenitore della vita umana che, in quanto tale, assimila e riflette ogni espressione di questa vita. Il termine domus, come ci ricorda Joseph Rykwert, non si traduce soltanto con il significato di “casa” ma anche con quello di familia, evidenziando così le strette relazioni tra l’uomo, la sua memoria e il luogo in cui vive. La casa inoltre è un luogo che fissa alcuni limiti molto precisi – quelli della concentrazione e dell’interiorità – posto che si offre al suo abitante come un’isola che lo separa dalla confusione circostante.
La casa rappresenta quasi una proiezione del proprio sé, un’appendice, sfarzosa o modesta non importa, perché è l’unico luogo dove veramente ci si ritrova. È un luogo con cui si crea un continuo scambio sinergico, che non solo ci rispecchia, ma che diventa uno strumento di crescita e riserva di energia, valvola di sfogo e fonte di nuova forza interiore. Il legame tra lo spazio vissuto e la propria interiorità è inscindibile: lo spazio suggerisce un’introspezione, aiuta a capirsi, a cambiare, a ricominciare.
Insegui il sogno di una casa vivente, silente, che s’adatti continuamente alla versatilità della nostra vita, anzi la incoraggi, con cento risorse che noi architetti insegneremo, arricchendola, con pareti e mobili leggeri, movibili: una casa variabile, simultaneamente piena di ricordi, di speranze, di coraggiose accettazioni, una casa “per viverla” nella fortuna ed anche nelle malinconie. Gió Ponti, 1973